Pubblichiamo in anteprima l’articolo di una compagna di Maistat@zitt@, scritto per il prossimo numero di Guerre&Pace dedicato ai fondamentalismi e agli integralismi, perché pensiamo possa contribuire al dibattito sull’autodeterminazione delle donne.
Le donne: corpi che non contano
di N.P.
«Se un lavoro non riesco a trovarlo adesso che ho ancora una buona presenza, meno ancora potrei domani quando porterei evidenti i segni di una decrepita vecchiaia. Dopo tanto tormento, un mese fa avevo trovato come cameriera in un albergo balneare […]. Al momento giusto non mi fu rilasciato il libretto di lavoro, perché non avevo una residenza. Chiesta la residenza, non fu concessa perché non avevo un lavoro che giustificasse la mia presenza in quella città… […] Ebbene è così questa ipocrita società, anziché darci una spinta verso l’alto, la dà invece per gettarci sempre più giù».
Può sembrare banale dire che la storia si ripete, ma certamente questo stralcio tratto da una delle tante Lettere dalle case chiuse (1955) raccolte da Lina Merlin e Carla Barberis pur risalendo al luglio 1953 ci dice qualcosa di molto attuale. Qualcosa di terribilmente attuale se pensiamo al recente disegno di legge sulla prostituzione presentato dalla ministra-valletta – o dovrei dire valletta-ministra? – Carfagna, un miscuglio di trionfo dell’ipocrisia e politiche repressive contro le donne ma, soprattutto, l’ennesima dimostrazione che i nostri sono corpi che non contano.
Senza invischiarmi in un pretestuoso dibattito su quale lavoro sia "più dignitoso" per una donna, cioè su quale parte di sé sia "più dignitoso" vendere sul mercato del lavoro e dello sfruttamento – discussione oziosa che lascio alla suddetta ministra, che su ciò ha sicuramente esperienze più varie delle mie – vorrei invece fare un passo più in là e cercare di evidenziare alcuni nessi fra le diverse forme di controllo agite oggi sui corpi, le sessualità e le vite delle donne.
Volutamente non entrerò, qui, nello specifico della tratta di esseri umani, in quanto fenomeno che riguarda tanto la prostituzione quanto altri lavori nonostante se ne parli solo per giustificare ‘umanitariamente’ le azioni repressive contro tutte le prostitute, vittime di tratta e non. Mi occuperò, inoltre, solo di prostituzione femminile poiché quella transessuale e quella maschile implicano anche altri fattori – e per farlo partirei dal nesso genere-‘razza’-classe, messo in luce molto bene da bell hooks (1).
Il disegno di legge Carfagna, che vieta senza vietare e che mette in galera senza che esista alcun reato, segue a ruota il ‘decreto sicurezza’ dove è detto chiaramente che le persone migranti sprovviste di permesso di soggiorno non possono avere un’abitazione – né come proprietarie, né come intestatarie di contratto d’affitto, né come ospiti.
Poiché gran parte delle migranti che si prostituiscono sulle strade non ha il permesso di soggiorno perché il loro lavoro non è riconosciuto come tale – nonostante la clientela di 9 milioni di italiani! – in teoria queste donne non possono avere un’abitazione. La ministra Carfagna, però, ha deciso che le prostitute sulle strade non ci possono stare quindi, se ne deduce, dovrebbero esercitare in casa. Ma in quale casa se non possono intestarsi i contratti d’affitto? Il gatto si morde la coda ma intanto la ministra, novella moralizzatrice di questo paese, dichiara di provare orrore per chi vende il proprio corpo e gongola della propria saggezza unendosi al coro di chi sostiene che la prostituzione di strada sia uno spettacolo che nuoce ai bambini. Ma ai bambini e – soprattutto – alle bambine nuoce certamente di più abituarsi ai corpi di donne usati per pubblicizzare qualsiasi merce o alle riprese del collo dell’utero delle veline in tv piuttosto che non vedere un paio di ragazze che chiacchierano fra loro sul bordo della strada in attesa di clienti – a meno che in quel momento come cliente non si fermi il loro ‘bravo paparino’, ma questa è un’altra faccenda che ben poco ha a che vedere con chi si prostituisce… O, ancor più, alle ‘anime innocenti’ nuoce vedere che a uno degli infiniti concorsi di bellezza, in questo caso l’elezione di miss Ciociaria, il presidente d’onore della giuria è nientepopodimenoche il criminale nazista Priebke, com’è accaduto di recente.
Ma torniamo a genere-‘razza’-classe e prostituzione. Dunque la migrante non può prostituirsi per strada ma non può nemmeno avere una casa – al di là del fatto che, in alcune città, le forze dell’ordine fanno controlli anche nelle case private in base agli annunci sui giornali. Verrebbe ironicamente da dire che l’unica soluzione sia tornare, come nel medioevo, a cercare clienti nelle chiese (2), ma qualcosa mi fa pensare che oggi questa sia una soluzione impraticabile.
Fatto sta che in Italia non è vietato prostituirsi, ma in realtà non ci si può prostituire. Un po’ come per l’interruzione di gravidanza: in teoria non è reato, anzi abbiamo perfino una legge, la 194/78, che riconosce il diritto delle donne di abortire negli ospedali pubblici, ma di fatto riuscire ad abortire senza ricorrere a soluzioni ‘clandestine’ è sempre più difficile, soprattutto, si noti la coincidenza, se si è immigrate e senza permesso di soggiorno. Qualcuna dirà che anche le migranti hanno diritto di accedere alla 194, ed è vero, ma può anche succedere che una donna vada in ospedale per interrompere la gravidanza e, come è accaduto a Treviso, venga arrestata dopo l’intervento in quanto sprovvista del permesso di soggiorno (3). D’altronde sappiamo bene che sempre più donne ricorrono all’aborto clandestino, secondo una precisa distinzione di classe: le migranti utilizzano generalmente il Cytotec, un medicinale antiulcera che viene ingoiato e/o inserito in vagina e che permette di abortire per la modica cifra di nemmeno 15 euro (salvo effetti collaterali); chi se lo può permettere, soprattutto se vive al nord, fa un salto in Svizzera per procurarsi la RU486, al costo di circa 400 euro; chi invece ha una buona disponibilità economica e tempo a disposizione può recarsi in qualche clinica londinese e risolvere la questione con 2mila euro, salvo se trova in Italia uno dei tanti ginecologi compiacenti – magari obiettori di coscienza nel pubblico ma molto meno obiettori nel privato – che nel proprio ambulatorio o nella clinica privata di riferimento spacciano le interruzioni di gravidanza come aborti spontanei, sempre per una cifra che si aggira intorno ai 2mila euro.
La scelta di affiancare, in questa ricerca di nessi, la prostituzione all’interruzione di gravidanza non ha nulla a che vedere con i moralismi, i familismi e tutti questi predicozzi che quotidianamente ci dobbiamo sorbire. Tutt’altro: ciò che mi interessa evidenziare è che c’è oggettivamente una convergenza in senso repressivo delle politiche che riguardano le donne e la sessualità o, meglio, le donne e l’autodeterminazione.
Non possiamo autodeterminarci nello scegliere cosa vendere di noi per campare, non possiamo autodeterminarci nella scelta se essere o meno madri, se portare a termine o meno una gravidanza e queste politiche di controllo e disciplina dei comportamenti femminili convergono – guarda caso – nell’ingabbiarci, ancora una volta, nella casa e nella famiglia.
Come la logica antiabortista pretende che la donna anteponga a sé la famiglia e la riproduzione a tutti i costi, così la logica antiprostituzione cerca di convertire le migranti che si prostituiscono in un esercito di riserva di colf e ‘badanti’ a basso costo. In fondo, se ci pensiamo bene, quando don Benzi parlava delle ‘sue ragazze’ tolte dalla strada evitava di dire quanto fossero, poi, sottopagate nei lavori ‘dignitosi’ che la sua associazione provvedeva a procurare loro. Come se fosse più dignitoso pulire le case o i figli e i nonni altrui a 5 euro l’ora piuttosto che non guadagnare il decuplo con una ‘marchetta’ da 10 minuti – e non mi soffermo qui sul fatto che, ormai, i prezzi delle prestazioni sessuali stanno diminuendo per allettare i clienti spaventati dalle ordinanze di sindaci & C. Possono essere le donne a scegliere per sé e stabilire, ciascuna, cosa sia per lei più dignitoso? Sempre ammesso che si possa trovare qualcosa di dignitoso in un mercato del lavoro – quello ‘onesto’, naturalmente! – sempre più impostato sul modello schiavistico, soprattutto quando si tratta di donne e uomini migranti.
Tutto ciò è già profondamente ipocrita di suo, ma se poi pensiamo che spesso le migranti che lavorano nelle case come domestiche o come ‘badanti’ (ma che termine orrendo, non mi ci abituerò mai…) devono subire le molestie e le violenze dei ‘bravi italiani mariti e padri di famiglia’ che tendono a perpetuare quella vecchissima tradizione per cui la domestica – non per nulla spesso chiamata semplicemente "la donna" – deve subire le attenzioni degli uomini di casa senza fiatare, pena il licenziamento e magari pure con la complicità della ‘brava moglie’ che tutela la moralità del focolare.
Ma di tutto ciò non si parla: nel regno degli ‘italiani brava gente’ importante è sempre riuscire a nascondere sotto al tappeto con destrezza la realtà dei fatti, alimentando ulteriormente quella cultura, tipicamente italica, dell’ipocrisia, del si fa ma non si dice.
In questa cultura la crisi economica in atto trova un’ottima sponda: dietro l’ipocrisia e il moralismo imperante si cela la necessità di individuare ammortizzatori sociali e, come sempre, le donne sonole candidate preferite. E allora: tutte le donne tornino a casa, no all’aborto sì alla famiglia e all’angelo del focolare; no alla prostituzione sì alla schiavitù domestica e sessuale delle ‘straniere’ nelle italiche case – la nostra esperienza coloniale ci sia maestra in ciò! E, soprattutto, no all’autodeterminazione delle donne, un ‘no’ su cui convergono destre e Vaticano, moralizzatori cocainomani e calendariste riciclate in versione parlamentar-castigata.
Ciò che Dante faceva dire da un tuonante san Pietro a proposito della chiesa, si adatta perfettamente al parlamento italiano: cloaca del sangue e della puzza.
Non si turbino le anime belle per queste mie affermazioni, forse un po’ forti per qualcuna, ma pensiamo piuttosto a come in decenni recenti i diritti basilari siano stati fatti a pezzettini e come si stia assistendo sempre più passivamente al rovesciamento sistematico di tutti i valori etici in cui siamo cresciute/i. Alcuni esempi: la solidarietà, che fino a poco tempo fa era una valore condiviso da molte/i, oggi rischia di diventare un reato, mentre giusto e lecito è l’odio per tutto ciò che non si conforma; l’antifascismo sembra sempre più un’offerta 3×2 del supermercato e così lo si annacqua furbescamente; l’autodeterminazione viene spacciata come pratica irresponsabile e deleteria mentre lo stato-padre-padrone, alleato al Vaticano, ci infantilizza tutte per arrogarsi il diritto di decidere cosa sia meglio per noi in ogni aspetto delle nostre vite, dalle vicende più intime e delicate che ci riguardano in prima persona all’abbigliamento da indossare. L’ossessivo moltiplicarsi di ordinanze comunali anti-prostituzione pretende perfino di stabilire quando una gonna può essere considerata ‘decorosa’ e quando no, in perfetta linea con l’appello lanciato lo scorso agosto dall’arcidiocesi messicana alle donne perché non indossino minigonne in quanto espressione di "prostituzione mentale" nonché istigazione alla violenza sessuale. Come se la violenza contro le donne fosse una questione di look e non, invece,di relazioni asimmetriche di potere e, soprattutto, come se la violenza femminicida e lo stupro fossero responsabilità delle donne.
Non pensiamo, quindi, che il peggioramento delle condizioni di vita delle migranti non abbia nessi con la qualità delle nostre vite di ‘cittadine italiane’ o che la stigmatizzazione delle sessualità non riproduttive sia un problema solo di lesbiche e gay, oppure che la repressione della prostituzione non ci riguardi perché abbiamo lavori ‘onesti e dignitosi’.
Non ho idea di quale piega abbia preso la vita della donna di cui ho citato la lettera in apertura, ma la storia di sé che racconta è storia di tante donne, non necessariamente prostitute e non necessariamente straniere: è storia di precarietà e di solitudine, ma è anche raccontata con la voce di chi non si arrende, di chi vuole poter scegliere per sé e per la propria vita, di chi accusa questa società e questa cultura di volerci "gettare sempre più giù" e renderci definitivamente corpi che non contano (4).
(1) bell hooks, Elogio del margine, Feltrinelli 1998
(2) Silvia Federici-Leopoldina Fortunati, Il grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale, Franco Angeli 1984
(3) Si veda http://ogo.noblogs.org/post/2008/09/17/il-decreto-sicurezza-scavalca-i-diritti-sanitari
(4) Volutamente il titolo dell’articolo richiama il lavoro di Judith Butler, Corpi che contano (Feltrinelli 1996), sulla marginalizzazione, nella società eteronormativa, dei corpi ‘diversi’ e considerati abietti
Bellissimo post!
Affiancare le politiche contro aborto e la protsituzione mi ha fatto riflettere e pensar eche il nsotro stato si pone contro la mancata libera scelta delle donne rispetto alla propria sessualità. In pratica l’itlaia nonostante siamo nel 2008 ha ancora la ferma concezione che noi dobibamo fare sesso per fare figli. La cosa che mi da fastiio è quella che l odecide uno stato maschio. Sinceramente mi da fastidio che gli uomini devono decidere come usare il nsotro corpo a me sembra non so saro’ drastica ma pare la stessa logica di quando ci stuprano (mancata autodeteminazione). Mi viene da chiedere xke gli uomini in materia della sessualità sono talmente liberi che possono prendere decisioni anche su come usare la nostra.
Saro’ un po schietta ma ormai i tempi sono maturi per scendere di nuovo in piazza!